Padrone e sotto
1975
PADRONE E SOTTO
da Il signor Puntila e il suo servo Matti di B. Brecht
Traduzione, adattamento e regia di Gennaro Vitiello; scena Salvatore Emblema, realizzazione Costantino Meo; struttura metallica Ditta Langella; costumi Marisa Bello, realizzazione Maria Izzo, Magda D’Ambrosio e Ausilia Pulpo; luci Fernando Pignatiello.
Attori: Vincenzo Salomone (Don Giovanni), Mario Salomone (Matteo), Giuseppe Bosone (il giudice), Magda D’Ambrosio (l’Attaché), Silvana Lianza (Eva), Marisa Bello (Emma, 1a donna), Anna Minichino (Adriana, 2a seconda donna), Maria Izzo (Chiarina, 3a donna, Presidentessa dell’A.C.), Michele Ragni (veterinario, cameriere), Ausilia Pulpo (cameriera), Giuseppe De Nubbio (parroco), Gruppo Contadino di Terzigno (coro).
Prima rappresentazione nazionale il 27 settembre 1975 presso il Teatro Mediterraneo – Napoli.
Padrone e sotto
Brecht sotto il Vesuvio
“…Ricordo che una volta siamo andati assieme a vedere uno spettacolo di Brecht… Madre Courage, con Lina Volonghi e la regia di Squarzina, e abbiamo fischiato a più non posso. Tanto che, trattandosi di un periodo abbastanza caldo, ci avevano etichettato come fascisti, ne parlarono anche i giornali. Dovemmo fare una conferenza stampa per spiegare i veri motivi…I discorsi che facevamo erano contro un Brecht assolutamente grigio, ridotto ad una specie di macchina di documentazione politica. Invece, la tesi di Gennaro era che Brecht non era solo quello, non si poteva ridurre Brecht alla rappresentazione di un’ ideologia. Era prima di tutto un autore poetico, era un autore che aveva inventato un sistema drammatico e con questo sistema bisognava fare i conti, entrando nello scarto brechtiano di ciò che lui diceva e di ciò che faceva…” (1).
Partendo da questo ricordo si può meglio capire la valenza, il valore dello spettacolo allestito nel 1975 dalla LSE: Padrone e sotto, liberamente tratto dal testo teatrale di Bertolt Brecht Puntila e il suo servo Matti (2): “…Padrone e sotto fu il testo centrale della LSE, soprattutto per lo studio della cultura popolare. Avevamo incontrato il gruppo de “La zabatta” e Gennaro decise di inserire il gruppo e le loro musiche dal vivo nello spettacolo. Questo fu determinante per farci elaborare un tipo di recitazione che cercasse a fondo i rapporti con la cultura popolare…” (3).
“…Nel 1975 c’è Padrone e sotto che ha risonanza nazionale anche perchè siamo in un’epoca in cui le cosiddette culture popolari cominciano a ricevere interesse nazionale…forse grazie a Fo, Barba, Scabia, che funzionarono da cassa di risonanza… Lo spettacolo debutta quando c’è tutto questo interesse per le culture popolari…Tutto questo ha fatto sì che lo spettacolo avesse tutto quel successo…Dopo tanti spettacoli contro, Gennaro, in assoluta buona fede e involontariamente, realizza uno spettacolo che fa parte di questo movimento, in sintonia con un momento culturale che studiava le tradizioni al Sud…” (4).
Vitello lo scelse perchè lo considerava uno dei testi migliori del drammaturgo tedesco, ma anche perchè vi ritrova la lotta di classe un tema a lui caro dai tempi del TS: “…La lotta di classe tra il capitalismo ed il proletariato…è il gioco teatrale che Brecht porta agli estremi a dimostrazione dell’impossibilità di un reale incontro tra le due classi…Se un incontro è possibile esso si può verificare solo a teatro come gioco…Il proletariato è “buono”, il capitalismo no…” (5). Nell’adattamento Vitiello non volle sottovalutare o trascurare l’elemento giocoso, felice, del testo, trasportando però l’azione dalla Finlandia nel retroterra vesuviano, dove “…ancora esiste una società e una cultura contadina…” (6), modellando la parabola nordica ai costumi e alle usanze della Campania, servendosi “…di una serie di trucchi convenzionali teatrali per comunicare con un pubblico di massa: il dialetto napoletano, i costumi ispirati alla ceramica contadina, la costruzione scenica come una giostra, il coro dei cantori della “‘A Zabatta”…per renderlo comprensibile, nella sua evidenza, ad un pubblico nostrano…” (7). In una intervista a Il Mattino, il regista sottolineò che la classe contadina brechtiana, per molti aspetti, era molto simile a quella dell’entroterra vesuviano e che la morale non era diversa da quella del Sud, “…abbiamo quindi voluto ritrascrivere l’opera nella teatralità meridionale rendendo più fruibile in tal modo il messaggio del drammaturgo tedesco…” (8).
Vitiello realizzò una trasposizione culturale e sociale del dramma di Brecht, un rischio rispetto alla maniera tradizionale e seriosa, monotona, con cui Brecht era stato messo in scena fino ad allora: non eliminò la componente didascalica del testo, la componente politica, ma offrì tutto questo in chiave solo un po’ più accattivante. Si può parlare di rivoluzione, di coscienza di classe, di politica, di ribellione anche ridendo. Infatti il regista non si limita a trasferire culturalmente e geograficamente il testo di Brecht, ma anche temporalmente: è la Napoli di quei tempi sullo sfondo, la Napoli povera e inquinata, “…con vistosi riferimenti ad episodi politici e di costume…” (9). Il testo di Brecht viene considerato da Vitiello un pre-testo, applicando quello che Enzo Salomone definisce “il rispetto del testo attraverso il suo tradimento” (10): “…Sei in Finlandia, uno scenario che qui non c’è, bisogna cambiarlo. Cosa dice Brecht? Il teatro affonda le radici nel suo tempo e qui cosa ho? Se Puntila è un ricco proprietario terriero di boschi in Finlandia, qui diventa un proprietario di nocelle dietro il Vesuvio. Se voglio fare il teatro popolare devo parlare il linguaggio di questa gente e dire dei loro problemi teatralizzandoli…” (11).
Non fu una traduzione letterale del testo, una traduzione a tavolino, piuttosto una interpretazione basata sull’improvvisazione, “…usando quello che ci serviva del testo…La recitazione si mosse sulla ricerca della sceneggiata, il rapporto era con il teatro popolare napoletano e l’opera dei pupi…” (12): “…Padrone e Sotto fu uno spettacolo alla Commedia dell’Arte, con un canovaccio e tanta improvvisazione da renderlo diverso ad ogni rappresentazione…” (13).
Il testo di Brecht diventa quasi una rete entro cui ingabbiare l’improvvisazione dell’attore, in modo da dargli ritmo e coordinazione: “…Nei discorsi su Brecht veniva fuori che l’interesse ideologico non esisteva, esisteva invece un fortissimo interesse poetico, culturale e di posizioni politiche. Per lo spettacolo prese spunto dagli attori popolari…Noi abbiamo passato mesi e mesi a guardarci le sceneggiate con Beniamino Maggio…E lì si riuniscono i fili: il puraro, il pupante, il regista della sceneggiata, l’attore della sceneggiata, Brecht…Comincia a crearsi un filo, una costruzione, che aiuta, che agevola il pensiero teatrale e l’elaborazione del testo…” (14).
Potremmo definire la napoletanizzazione del testo di Lorca e le due traduzioni in dialetto dei testi di Brecht un omaggio di Vitiello al teatro più popolare di Napoli: la sceneggiata, “…quando Gennaro dava le indicazioni per gli spettacoli, diceva di pensare molto agli attori della sceneggiata. Per lui era quasi una scuola di teatro, una metodologia di lavoro su cui impostare la recitazione…” (15). La trasformazione inizia dai nomi dei personaggi: non più il Signor Puntila, ma Don Giovanni, il servo Matti può diventare solo Matteo; il titolo, a prima vista non sembra avere alcuna attinenza con la traduzione letterale, ma non è così: si richiama ad un vecchio gioco contadino, il tocco, chi decide e chi subisce, ossia il padrone e il sotto: “…Gioco da bettola che richiama familiarmente negli spettatori dimestichezza da osteria, storie ridanciane, ma non meno cocenti di mortificazione e di furore, di potere e di sfruttamento…” (16).
Come fa notare Vanda Monaco, per meglio comprendere il senso dell’operazione compiuta da Vitiello, bisognerebbe ricordare gli scritti di Hans Mayer su Brecht ed il suo rapporto con la“cultura media , quella dei gialli, del pugilato, del catch a cui Brecht non si avvicinò “…con l’atteggiamento dell’intellettuale che si proietta dentro l’universo culturale medio del proprio tempo, ma anche con la partecipazione e il gusto di chi ha la coscienza che quel tempo…gli appartiene…” (17).
La scena era una giostra al centro dello spazio scenico: “…una serie di teli trasparenti sospesi ai raggi d’una struttura metallica ad ombrello di forma circolare e dentro il cerchio giostra-pino-ombrello dal diametro di cinque metri si succedono le dieci azioni sceniche…” (18).
I teli della giostra erano vere e proprie opere d’arte, dei teli regalati dal pittore napoletano Salvatore Emblema: teli di sacco colorati e sfilati, in pratica ogni telo era un suo quadro (19). La giostra limitava in maniera ben definita lo spazio scenico in cui ogni azione era sottolineata con il solo uso delle luci: “…la luce definirà l’atmosfera del luogo ove si svolge l’azione…” (20). Sulla scena non era presente nessun oggetto realistico, ma solo trasparenze e luci per indicare l’ora, il tempo e il luogo dell’azione ed i teli prendono il posto dei siparietti brechtiani.
Ma secondo Fofi “…La giostra che fa da tutta scenografia è arnese di nessuna efficacia e di nessuna necessità, blocca anzi sadicamente il gioco degli attori…” (21).
Il coro, il gruppo dei “Contadini della Zabatta” di Terzigno, invece utilizzerà l’intero spazio scenico “…quando la struttura metallica ad ombrello, girando sul perno-tronco, solleverà i teli a volo e l’albero si mostrerà come palo della cuccagna durante una festa popolare…” (22), ricreando quella felicità di cui parlavamo in precedenza, suonando tamburelli, putipù, nacchere e triccaballacche, o addirittura cantando seguendo il ritmo dato dallo schioccare di una frusta.
“…Gli spazi musicali di Dessau…vengono sostituiti da tammurriate ricche di forza e vitalità…” (23) e la musica del gruppo di Terzigno “…è testimonianza e non reperto…” (24). “…Le musiche erano quelle dei “Contadini della Zabatta”. Gennaro spiegò loro lo spettacolo per creare le musiche, una tammurriata che non parlasse delle solite cose, ma che contenesse il prologo di Brecht…Tutto questo è brechtiano all’insaputa dei musicisti, loro stanno facendo il loro lavoro: gli è stata raccontata una storia diversa dal solito matrimonio, di un signore che è proprietario terriero e che quando è ubriaco si mette con il suo autista e lo tratta bene, quando è sobrio lo tratta male! Questo modo di fare è compreso dai musicisti e dal pubblico, senza dovergli parlare di Brecht…” (25).
I costumi, ispirati alla ceramica popolare, erano “…un blocco strutturale di forma plastica ben definita entro cui l’attore trova un suo gioco minimo espressivo in una sintesi di segni…e di fruizioni scevra da qualsiasi studio dei mezzi di comunicazione di massa…” (26). I costumi del mondo contadino e del proletariato urbano erano quelli più lineari, mentre quelli del Giudice o del Prete hanno caratteristiche baroccheggianti e satiriche; particolare quello di Don Giovanni che nasceva “…da una ceramica scultorea semplice che si autoaccusa mostrandosi rotta al centro della sua forma (una voragine mostra uno spacco del personaggio nella rottura tra gambe e pancia)…” (27). Tutti i costumi sembravano di porcellana dipinta a mano, col un brillìo di vernice che risaltava grazie alle luci: “…I costumi li firmai io per la prima volta e la mia ricerca fu sugli oggetti d’uso nella cultura popolare, come ceramiche, porcellane. Infatti, tutti gli attori erano come imbalsamati dentro dei costumi-vasi, costumi-statuine, fatti di stoffa e poi telati con la carta pesta, irrigiditi in questo materiale che sembrava quasi ceramica…” (28). Il costume-involucro, la sua rigidità accentua la parodia e la caricatura dei caratteri e dei personaggi:“…Puntila…è simile a un nero, goffo pulcinella-pinguino e Matti è uno chaffeur persino troppo burattinesco nella sua azzurognola divisa…” (29). “Puntila trasformato in un salvadanaio, truccato alla Macario dei tempi eroici…e Matti presentato come un contadino autista dalla livrea azzurro-lacca…un po’ Pulcinella e un po’ Arlecchino…” (30).
Michele Ragni fu colpito da un costume in particolare, quello del narratore: “…che era vestito con una specie di costume tirolese e con in testa un cilindro, sul quale era incollata una scacchiera. Con il resto dello spettacolo non c’entrava niente, ma Gennaro aveva visto qualcosa di simile durante un suo viaggio in Germania, era rimasto colpito e così lo aveva riproposto…Penso che a volte gli spettacoli, i costumi, le scene fossero un mezzo per esprimere e realizzare suoi desideri interiori, suoi ricordi…” (31).
Secondo Goffredo Fofi questo spettacolo è il logico punto di arrivo dopo le esperienze di Ur-Faust, La morte di Empedocle e Lorca: “…Il punto di arrivo di Brecht è coerente e valido…” (32), ma ha elementi di freno: partire da Brecht per ritornare alla farsa contadina, da cui lo stesso autore era partito, sembra un’operazione regressiva, ma “…in mancanza di un Brecht nostrano capace di partire dalla nostra tradizione per inventare un teatro epico di buon livello “marxista”, non ci pare poi questa grande limitazione…” (33).
“…Da tempo sentivo l’esigenza di trovare un linguaggio diretto con il nostro pubblico, quello del decentramento. Per questo ho lavorato a lungo con i contadini del Vesuvio che mi hanno anche aiutato a tradurre il prologo. Il lavoro è stato immediatamente accettato, soprattutto in campagna. Ogni volta molta gente interviene attivamente nello spettacolo…Anche in città avviene la stessa cosa, ma la partecipazione è diversa…” (34).
Note:
- S. De Matteis – intervista concessa il 25/10/1995
- Il testo fu composto tra il 1940 e il 1941 e fu considerato uno dei capolavori della maturità dell’autore. Secondo Mayer: “…Brecht fa di Puntila una maligna versione del kantiano classico. Il ricco ubriacone mostra molta volontà buona, ma non compie alcuna azione buona…Il servo Matti si era attenuto troppo a lungo al preteso buon nocciolo di Puntila, alla fine scopre anch’egli l’insolubile antinomia tra bontà senza effetti e azioni concrete nient’affatto buone, fondate sugli interessi di classe…”, H. Mayer – B. Brecht – Teatro, Torino, Einaudi, p. XXIX
- M. Bello – intervista concessa il 24/4/1993
- S. De Matteis – ibidem
- G. Vitiello – programma di sala di Padrone e sotto – settembre 1975
- G. Vitiello – ibidem
- G. Vitiello – ibidem
- E.C. – “Arriva da Napoli il Brecht finlandese”, Corriere della Sera del 29/4/1976
- G. Valdini – “Vedi Napoli e poi fai Brecht”, L’Ora del 27/4/1976
- E. Salomone – ibidem
- E. Salomone – ibidem
- M. Bello – ibidem
- M. Ragni – intervista concessa il 17/6/1993
- S. De Matteis – ibidem. Per ulteriori informazioni sulla sceneggiata napoletana, si veda nelle Appendici l’articolo di Rita Cirio – “Per un teatro naï f: la sceneggiata e il dramma sacro”
- M. Ragni – ibidem
- a.c. – “Brecht napoletano e cafone”, Giornale di Sicilia del 27/4/1976
- V. Monaco – La contaminazione, cit., pag. 175
- G. Vitiello – ibidem
- “Salvatore Emblema…interviene con tutta la sua poetica pittorica, tesa ad una riconquista dello spazio, ove l’uomo possa ritrovare gesti e movimenti più liberi e felici. Emblema ha creato una giostra che, posta al centro del palcoscenico, utilizza, in maniera quanto mai semplice, uno spazio scenico ben definito per rendere massimamente chiara ogni azione con la qualità della luce in rapporto ai pieni e ai vuoti dello spazio circostante…” – Anon. Documenti oggi, anno II, N° 2/3/4 1976
- G. Vitiello – ibidem
- G. Fofi – “Padrone e sotto”, Ombre Rosse, n°15/16, s.d.
- G. Vitiello – ibidem
- m.g.g. – “Padrone e sotto al Pierlombardo”, l’Unità dell’1/5/1976
- S. Petrone – ibidem
- E. Salomone – intervista concessa il 4/11/1991
- G. Vitiello – ibidem
- G. Vitiello – ibidem
- M. Bello – ibidem
- D. Rigotti – “Un Brecht napoletano”, L’Avvenire del 1/5/1976
- m.g.g. – ibidem
- M. Ragni – ibidem
- G. Fofi – ibidem
- G. Fofi – ibidem
- G. Vitiello intervistato da C. Brusati, “Pochi soldi, molta fatica”, Il Mondo del 13/5/1976
Recensioni:
- Anon. – “Il gruppo Libera Scena”, Thèatron n° 174 – 1975
- G. Fofi – “Padrone e sotto“, Ombre Rosse n° 15-16 1976
- Anon. – “Padrone e sotto“, Scena n° 1 1976
- R.P. – “Prometeo chiuso nel manicomio e Brecht tradotto in napoletano”, Corriere della Sera 30/3/1976
- f.p. – “Al S. Ferdinando rassegna del Nuovo Teatro a Napoli”, l’Unità 20/4/1976
- G. Valdini – “Vedi Napoli e poi fai Brecht”, L’Ora 27/4/1976
- a.c. – “Brecht napoletano e cafone”, Giornale di Sicilia 27/4/1976
- vice – “Padrone e sotto“, Il Mattino 27/4/1976
- E.C. – “Arriva da Napoli il Brecht finlandese”, Corriere della Sera 29/4/1976
- D. Rigotti – “Un Brecht napoletano”, Avvenire 1/5/1976
- m.g.g. – “Padrone e sotto al Pier Lombardo”, l’Unità 1/5/1976
- R.P. – “Puntila sotto il Vesuvio”, Corriere della Sera 1/5/1976
- U.S. – “Puntila e Matti dietro il Vesuvio”, Il Messaggero 8/5/1976
- N. Garrone – “Nevrosi, tammurriate e Brecht”, la Repubblica 12/5/1976
- C. Brusati – “Pochi soldi, molta fatica”, Il Mondo 13/5/1976
- A. Cocchia – “Brecht vesuviano”, Confidenze 20/6/1976
Testo tratto dalla tesi di laurea in Istituzioni di regia, “Gennaro Vitiello, regista” di Leonilda Cesarano, per il Corso di Laurea in Dams – Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, relatore prof. Arnaldo Picchi.