Il folle, la morte e i pupi
1968
IL FOLLE, LA MORTE E I PUPI
da Il folle e la morte di H. v. Hofmannsthal e Los Titeres de cachiporra di F. G. Lorca.
Traduzioni di G. Pintor (Hofmannsthal) e G. Vitiello (Lorca).
Regia di Gennaro Vitiello; scena Giovanni Girosi, realizzazione Alfredo Abbisogno e Mauro Carosi; costumi Odette Nicoletti, realizzazione Odette Nicoletti, Bruna Alfieri, Francesca Calzarano, Leopoldo Mastelloni, Paola Panico, Rosaria Paparo e Gloria Pastore della Scuola di BB.AA. di Napoli; musiche originali Sergio de Sanctis e Arturo Morfino; aiuto regia Gerardo D’Andrea; sonorizzazione Arturo Morfino; tecnico luci Mauro Carosi; pubblicità, propaganda e sviluppo Tony Fusaro.
Attori (per Hofmannsthal): Tony Fusaro (Claudio), Giulio Baffi (il suo domestico), Angelo Baldroccovich (la morte), Dely de Majo (la madre di Claudio), Sergio de Sanctis (un amico di giovinezza di Claudio). Attori (per Lorca): Angelo Baldroccovich (la zanzara), Adriana Cipriani (Rosita), Giulio Baffi (il padre), Vincenzo Salomone (Cocoliche), Davide Maria Avecone (Cristobita), Giuseppe Barra (servo, ragazzo, spazzanuvole, Scocciagente, prete), Giovanna da Paola (Ora, Conchita), Dely de Majo (Birba), Sergio de Sanctis (ragazzo, Figaro), Leopoldo Mastelloni (Currito).
Prima rappresentazione 7 giugno 1968 presso il Centro Teatro Esse, via Martucci, 18 – Napoli.
Il folle, la morte e i pupi
vita e morte, sole e ombra
“Lidia Herling-Croce mi fece conoscere la bella traduzione di Giaime Pintor de “Il Folle e la Morte” di Hugo von Hofmannsthal…”(1).
Dopo aver letto il testo di von Hofmannsthal, del 1894, Vitiello decise di metterlo in scena insieme ad un testo di Lorca Los titeres de cachiporra, un atto unico, anche questo tradotto dallo stesso Vitiello con il titolo I Pupi. A prima vista i due modelli teatrali sembravano antitetici, un’operazione discutibile, addirittura azzardata o superficiale, ma Vitiello riuscì a confrontare e quasi fondere autori che solo apparentemente erano distanti, avvicinandoli per analogie e differenze.
L’opera di Hofmannsthal colpì Vitiello per il rigore dello stile, per la sua unità che però traeva spunto dalle fonti più disparate e diverse, per il suo ricercare un ritorno ai valori lirici contro tanta mediocrità, tanta tradizione; anche Lorca, da parte sua, rompe con il tradizionalismo, “…servendosi oltre che del rinnovato elemento lirico, della riscoperta di un nuovo linguaggio teatrale…”(2). Entrambi gli autori rompono con il passato: uno grazie al suo preciso rigore formale, l’altro con un teatro basato sulla comunicazione immediata, con il teatro delle randellate, dei burattini: “…non a caso nessun popolo come il tedesco e lo spagnolo ha sentito il teatro con tanta vitale necessità da farne il suo più illustre mezzo di espressione e insieme la platea di tutti i disordini e gli entusiasmi popolari…”(3). In entrambi gli autori Vitiello trova un denominatore comune: oltre al rifiuto del facile accademismo, Hofmannsthal e Lorca parlano della vita e della morte, di sol y ombra. Per questo si decide di creare un unico spettacolo senza però “…accettare filologicamente i testi…ma riproporli con un linguaggio formale più vicino, più corrispondente alla nostra sensibilità, attraverso il quale potessero scaturire contenuti attuali…”(4).
La scena per Il Folle e la Morte, di Giovanni Girosi, era formata da una pedana di due metri posta al centro della sala, un foglio di plastica trasparente con un taglio centrale chiudeva interamente il palcoscenico, evidenziando il muro bianco gesso della parete di fondo. Assolutamente bianchi erano anche i costumi degli attori, che richiamavano i calchi di Segal (5), “bianchi sudari”(6) che si muovevano sulla balconata laterale, da un cunicolo del muro a sinistra, solitamente usato come uscita laterale, e dalle rientranze della parete di fondo. Il secondo atto si svolgeva, invece, dietro la parete trasparente di plastica, dove dieci attori si muovevano come marionette, illuminati da luci intermittenti colorate che uscivano dalla ribalta e da una serie di riflettori collocati nei fori di un plafond di legno.
Sia nella scena che nei costumi, di Odette Nicoletti, “follemente fantasiosi”(7), Vitiello volle rendere evidente le allusioni, volute, grazie all’uso di materiali nuovi, alle tendenze contemporanee nell’arte: “La ricerca è stata condotta su un piano musicale-visivo, nel quale le componenti della messa in scena potessero risultare unitarie…”(8).
Vitiello parla di forme chiuse in Hofmannsthal e di una recitazione suggerita dalla dodecafonia del Pierrot lunaire” di Schö nberg (9), per richiamare il suo rigore formale, una recitazione che segue e risente dei ritmi della musica: Vitiello non adotta la traduzione in endecasillabi fatta da Giaime Pintor, ma “…una declamazione cadenzata e quasi sillabata sulla scorta di suggestioni dodecafoniche…”(10).
Per Lorca, invece, si segue una impostazione basata sulla geometria musicale, su segni confluenti, con svariate frasi musicali, prendendo dalla musica del ‘700 e da quelle folcloristiche, da quelle del melodramma a quelle della musica sacra. Una messinscena che diventa una girandola di suoni, di gesti, di colori, una “concitata burattinata”(11).
L’opera di fusione dei due testi non sembra però riuscita al critico dell’Unità: “…fondere questi due testi, interpretandoli in una medesima chiave e riducendoli a balletto marionettistico o a gioco estetizzante non mi pare operazione chiara, da un punto di vista critico…L’operazione è stata compiuta riducendo i due testi a puri pretesti per un balbettio, ora lento e scandito, ora convulso e urlato, secondo un criterio musicale che, grosso modo, vorrebbe rifarsi a Schö nberg o ad Alban Berg…”(12), uno spettacolo mancato, nel quale, però, “…i valori di recitazione e di regia, come sempre, si affermano con autorità”(13).
Note:
- G. Vitiello – “Funiculì, Funiculà” del 5/4/1985
- G. Vitiello – programma di sala Il Folle, la Morte e i Pupi, giugno 1968
- G. Vitiello – ibidem
- G. Vitiello – ibidem
- G. Segal, scultore statunitense vicino alla pop-art di New York, dal 1961 ha modellato direttamente sul corpo umano i suoi calchi di gesso, creando personaggi anonimi, colti mentre compiono azioni quotidiane e banali; spesso le figure sono inserite in “allestimenti scenici” che richiamano un ambiente domestico o urbano.
- Vice – “Il folle, la morte e i pupi”, Il Mattino del 9/6/1968
- e. f. – “Il nuovo spettacolo al Centro Teatro Esse”, Corriere di Napoli dell’8-9/6/1968
- G. Vitiello – ibidem
- A. Schönbergh compose Pierrot lunaire nel 1912 e si può considerare il manifesto dell’espressionismo musicale, una svolta decisiva per la musica contemporanea; l’opera è un melodramma per voce recitante e 8 strumenti su 21 poesie del simbolista belga A. Giraud. Al canto tradizionale dell’opera è opposto il “canto parlato” che non intona la nota musicale, ma la sfiora, oscillando in un rapido crescendo e diminuendo, dando origine ad una “recitazione allucinata”. Il Pierrot denuncia la crisi dell’uomo come soggetto, dell’individuo nell’alienazione della società che sta precipitando verso la guerra.
- Vice – ibidem
- Vice – ibidem
- pari – Il folle, la morte e i pupi, l’Unità del 9/6/1968
- pari – ibidem
Recensioni:
- Anon. – “Un collage di prosa presentato al Teatro Esse”, Roma 8/6/1968
- vice – “Il folle, la morte e i pupi“, Il Mattino 9/6/1968
- pari – “Il folle, la morte e i pupi“, l’Unità 9/6/1968
- e.f. – “Il nuovo spettacolo al Centro Teatro Esse”, Corriere di Napoli 9/6/1968
Testo tratto dalla tesi di laurea in Istituzioni di regia, “Gennaro Vitiello, regista” di Leonilda Cesarano, per il Corso di Laurea in Dams – Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, relatore prof. Arnaldo Picchi.