1969
I NEGRI
di J. Genet
Traduzione e regia di Gennaro Vitiello; scena Giovanni Girosi, realizzazione dato non noto; costumi Odette Nicoletti, realizzazione dato non noto; aiuto regista dato non noto; musiche originali, effetti sonori e movimenti corali Sergio de Sanctis; tecnico luci dato non noto; pubblicità, propaganda e sviluppo dato non noto.
Attori: i Negri: Adriana Cipriani, Davide Maria Avecone, Dely de Majo, Sergio de Sanctis, Tonia Martinelli, Giuseppe Barra e Mauro Carosi; i Bianchi: Leopoldo Mastelloni (la Regina), Lucio Allocca (il giudice), Giulio Baffi (il Governatore), Pino Simonelli (il missionario) e Vincenzo Salomone (il servo).
Prima rappresentazione nazionale il 17 gennaio 1969 presso il Centro Teatro Esse, via Martucci, 18 – Napoli.

I Negri
e chi lo è più dei Napoletani?

“La cosa più intensa mai fatta fu I Negri: si mosse una città intera per vedere lo spettacolo…”(1).

Vitiello decise di mettere in scena il dramma di Genet dopo aver letto il testo in francese, dal momento che nel 1968 non esistevano ancora traduzioni ufficiali. Subito si rese conto delle difficoltà che avrebbe incontrato per la traduzione del testo in italiano, ma essendo “smisuratamente…innamorato del testo…”(2) decise di andare avanti. Partendo dalla dichiarazione dello stesso Genet: “Una sera un uomo di teatro mi chiese di scrivergli un testo che doveva essere recitato da negri. Ma che cos’ è un negro?…e di quale colore…”(3), Vitiello scorse la possibilità di continuare il suo discorso sulla lotta allo sfruttamento, alla sopraffazione dell’uomo sull’uomo, di un popolo su di un altro popolo, di una civiltà su un’altra civiltà: “…Sapevamo che l’autore non voleva cedere a compagnie teatrali formate da attori bianchi il diritto di rappresentazione…ma nella sua dichiarazione…appariva chiaro che per negro Genet intendeva qualsiasi emarginato e gli attori ed io ce la sentivamo di affrontare questo testo proprio perché, come napoletani, conoscevamo bene il peso dell’emarginazione sofferto dalla nostra città…”(4).

“…Sul manifesto dello spettacolo c’era la citazione di Genet…è lui che dà le indicazioni. Vitiello liquidò la questione in maniera molto semplice: c’è qualcuno in Europa più negro dei napoletani? E perché non scoprirsi oggetti di negritudine?…Noi eravamo uomini-attori, forse nemmeno napoletani…”(5). Vitiello riuscì a contattare Genet che, inizialmente rifiutò l’autorizzazione; ma dopo svariati tentativi si riuscì a fare intendere all’autore il motivo di tale scelta e il regista ottenne il consenso per rappresentare il dramma.

Dopo l’ultima rappresentazione de Il Folle, la Morte e i Pupi, a fine giugno del 1968, il gruppo decise di rivedersi a settembre per iniziare le prove per I Negri. Nel frattempo, per lavorare alla traduzione, Vitiello partii per Uiffingen, un piccolo paese svevo, dove rimase per tutto luglio ed agosto. Nel tradurre il dramma Vitiello pensava agli attori che avrebbero interpretato le parti, “…Scrivevo le battute e immaginavo Adriana, Leopoldo, Peppe come le avrebbero recitate: tenendoli sempre presenti, la scrittura scenica mi riusciva scorrevole…”(6).

La scena per lo spettacolo fu studiata in maniera rigorosa, fin nei minimi particolari: “…s’imbiancarono a calce tutte le pareti: quel bianco totale doveva risvegliare l’immaginazione degli attori e degli spettatori, che, senza via di scampo, venivano a sentirsi immersi nella realtà di un Sud accecante.” (7). Poi si posero due palcoscenici uno di fronte all’altro, uno all’ingresso e l’altro in fondo alla sala, con un tavolato centrale, di poco più di un metro, che li univa. A metà di questo tavolato c’era la bara della negra assassinata per la quale si celebrava il processo. Una scenografia semplice, essenziale, che privilegiava al massimo il rapporto tra attori e pubblico, che si trovava proprio al centro dell’azione.

Gli oggetti di scena erano soltanto due: il trono per la regina negra e quello della regina bianca, “…Il trono dei negri lo ricavammo da un imponente sediolone napoletano di un noto shoescleaner, quello dei bianchi lo ottenemmo con la sovrapposizione di cassette da frutta…”(8). La scelta dell’essenzialità scenografica fu fatta anche per valorizzare di più la struttura agonistica del dramma che riprendeva l’antico teatro greco: “…La pièce poggia essenzialmente sull’agone…in una rapida successione di momenti episodici e simbolici…Aveva…come nel dramma greco il suo parodo e il suo esodo, anche senza l’entrata e l’uscita degli attori dal luogo teatrale. Quando il pubblico entrava nella sala-palcoscenico, gli attori erano già al loro posto, accovacciati per terra tra le sedie. Al termine della rappresentazione, rimanevano fermi sulle pedane fino all’uscita dell’ultimo spettatore. Delle sere ci fu qualche spettatore che, non volendo sottostare a quella nostra provocazione, rimase a lungo in sala costringendoli per molti minuti a restare immobili…”(9).

Lo spettacolo iniziava con dei suoni a percussione e gli attori intonavano un coro che si adeguava, man mano, al crescendo della musica; due attori giocavano con degli astragali di pietra, mentre un altro graffiava sul muro due nudi elementari di un uomo e di una donna, altri si lamentavano e gridavano, danzando a piedi nudi. Poi, tutti gli attori si avvicinavano al tavolato al centro della sala e si dipingevano il volto con la farina e il carbone, che erano collocati in due grossi piatti di ceramica (10). Sulla piattaforma dell’ingresso prendeva posto la Corte dei Bianchi, sull’altra quella dei Negri ed iniziava lo spettacolo: due ore senza interruzione: “…Penso a quel lavoro, ché fu senza dubbio alcuno uno dei nostri prodotti che meglio riuscì, sia per le capacità di tutti i collaboratori ad operare in équipe, sia per le sue capacità estetiche…L’interesse della pièce da parte degli attori forse aveva un’altra origine: il desiderio di fare da mattatori che alligna in ogni attore napoletano. La drammaturgia de “I Negri” è infatti basata sull’incontro di un vasto numero di grossi personaggi. Non ci sono ruoli minori, nessun comprimario, nessun generico o caratterista. Ognuno ha il suo ruolo di primattore…” (11).

A quel che racconta Vitiello, gli attori del TS furono fedeli seguaci del metodo dell’Actor’s Studio, con Giulio Baffi che approfondì il ruolo di giudice studiando la sua famiglia di giuristi, e Pino Simonelli che, ogni giorno, si recava alla Chiesa di Santa Maria in Porto per vedere le funzioni ed ascoltare le prediche, così da perfezionare, prova dopo prova, il suo vescovo!

Dalle recensioni si evince che lo spettacolo fu accolto bene dalla critica, tranne qualche perplessità sulla lunghezza del testo, elogiando soprattutto la regia di Vitiello, che permette ad un gruppo numeroso di personaggi di muoversi in maniera omogenea ed affiatata, gruppo dal quale traspare la consapevolezza del messaggio che in quel momento si sta trasmettendo: “…Il primo lavoro a cui partecipai fu “I Negri” ed ebbe un grande successo. Vitiello ebbe il permesso dallo stesso Genet di farlo rappresentare da bianchi e siamo stati l’unica compagnia al mondo a poterlo fare, ma a Napoli nessuno si accorse di questo…Era tutto un rituale…Il mio costume era un sacco di iuta…Ho imparato moltissimo da Vitiello: non era un teatro da attore, ma un laboratorio…dove si provava, si parlava, si conosceva l’autore prima di metterlo in scena…Oggi questo non si fa più perché non c’è il tempo…Non si poteva mettere in scena un testo senza conoscerne a fondo l’autore, la cultura…” (12).

Ancora una volta si grida al miracolo per i costumi della Nicoletti, ottenuti con coperte, sacchi di tela grezza, scampoli di broccato e cartone verniciato, “…sottratti a riferimenti temporali e spaziali ma riccamente emblematici..” (13).

Non sfugge l’attualizzazione del testo, costante del lavoro del TS: “…Nel disprezzo contro i bianchi, intesi qui, in senso figurato, come sfruttatori, privi di anima e di sangue…incapaci di distinguere un negro dall’altro, mi pare risieda il motivo più attuale e pungente de I Negri. La rivolta è contro la sicurezza di un diritto divino alla sopraffazione (“Abbiate fiducia, maestà, Dio è bianco…da duemila anni Dio è bianco…”). Questo linguaggio è comprensibile ai vietnamiti che combattono gli invasori americani ma anche ai braccianti calabresi; ai negri e ai gruppi di colore che vivono nei sobborghi delle grandi metropoli USA…La chiave per la esatta e attuale comprensione dell’opera di Genet, insomma, si trova proprio nel suo contenuto di lotta classista. Gennaro Vitiello mi pare abbia puntato giusto nell’accentuare questo carattere…” (14).

Nel 1985 Vitiello ricorderà ancora con irritazione la recensione apparsa sul Corriere di Napoli del 18 gennaio 1969 dove “…Il critico…riteneva che la scelta della pièce di Genet non poteva che condurci verso una strada che portava diritto all’assenza del teatro. L’irritazione mi nasceva dal constatare come continuasse ancora a perpetuarsi un giudizio negativo su Genet…Era bersagliato da chi riteneva che un poeta così dichiaratamente ostile al teatro non avesse alcun diritto a scrivere per il teatro…Quando Genet afferma di non amare il teatro si riferisce solo a quello occidentale…” (15). Sfugge il concetto genetiano di un teatro fatto da attori che diventassero un segno carico di segni, e non solo attori che si identificano con i personaggi di un dramma: “…Per Genet il teatro deve affrancarsi dal mondo esterno, non deve rappresentarlo, ma penetrarlo. E l’attore non è solo colui che mostra allo spettatore il suo personaggio, ma un segno portatore di infiniti altri segni…” (16).

Genet può considerarsi come il punto di partenza per l’allontanamento, da parte del TS, dal teatro della crudeltà di Artaud, e da Brecht, dal suo teatro pedagogico e didattico, quasi un punto di mediazione tra i due, anche se Brecht non sarà mai del tutto rifiutato, per tornare predominante con la LSE.

Note:

  1. G. Baffi – intervista concessa il 14/10/91
  2. G. Vitiello – “Funiculì, Funiculà” del 22/6/85
  3. J. Genet – citato da G. Vitiello – ibidem
  4. G. Vitiello – ibidem
  5. V. Salomone – intervista concessa il 4/11/91
  6. G. Vitiello – ibidem
  7. G. Vitiello – “Funiculì, Funiculà” del 29/6/85
  8. G. Vitiello – ibidem
  9. G. Vitiello – ibidem
  10. Discutibili le perplessità di Elena De Angeli a proposito della rappresentazione della pièce di Genet da parte di attori bianchi: “…la messinscena del dramma implica a sua volta innegabili e non lievi difficoltà, a partire dall’esigenza imprescindibile di servirsi di attori veramente neri…Poco attendibile, e anzi snaturante, risulta infatti la soluzione -adottata in particolare da alcune compagnie italiane negli anni della ricerca e della sperimentazione – di far recitare attori bianchi truccati da negri mascherati da bianchi, introducendo una ulteriore sovrapposizione, del tutto arbitraria, che nessun equilibrismo teorico vale a motivare fino all’assunto”, e l’autrice cita nella nota gli allestimenti del TS e del Gruppo dell’Iperbole di Roma, con la regia di Marco Gagliardo, nel 1976. – nota introduttiva a J. Genet “I Negri”, Einaudi, Torino 1982, p. VIII
  11. G. Vitiello – “Funiculì, Funiculà” del 5/7/85
  12. P. Barra – intervista concessa il 14/11/91
  13. FdC – “I Negri di Jean Genet”, Il Mattino del 18/1/1969
  14. Pari – “I Negri di Jean Genet”, l’Unità del 19/1/1969
  15. G. Vitiello – ibidem. Il regista si riferisce all’articolo di e.f.: “…Anche qui assistiamo alla preparazione di una commedia. Una commedia che -manco a dirlo- non andrà in porto perchè Genet è convinto in partenza di trovarsi di fronte a un ostacolo insormontabile: i personaggi, per lui, non sono che che “le pure proiezioni degli spettatori”, dei “fantasmi” condizionati da un marchio d’origine dal quale non possono affiancarsi. In altri termini, la dimostrazione della “impossibilità” di personaggi teatrali che interamente recuperino personaggi reali. Di conseguenza, fallimento del tentativo di commedia e spiraglio di una diversa possibilità di soluzione (ma Genet stesso non ne conosce chiaramente i termini)…Adesso, a nostro avviso, è ora di cominciare a fare il teatro. Magari scegliendo l’opera di qualche autore che -a differenza di Genet- nel teatro ci creda ancora.”.
  16. J.P. Sarrazac – Enciclopedia del teatro del 900, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 212/214

Recensioni:

  • S. Lori – “I Negri: una cerimonia rituale come suggestiva farsa grottesca”, Roma 18/1/1969
  • F.d.C. – “I Negri di Jean Genet”, Il Mattino 18/1/1969
  • pari – “I Negri di J. Genet”, l’Unità 19/1/1969
  • e.f. – “Les Negres di Genet”, Corriere di Napoli 18-19/1/1969

Testo tratto dalla tesi di laurea in Istituzioni di regia, “Gennaro Vitiello, regista” di Leonilda Cesarano, per il Corso di Laurea in Dams – Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, relatore prof. Arnaldo Picchi.