Medea
1969
PROVE PER LA MESSINSCENA DI MEDEA
di L. Anneo Seneca
Adattamento e regia Gennaro Vitiello, scena Giovanni Girosi; costumi Odette Nicoletti; musiche Sergio de Sanctis; aiuto regista Antonio Capodanno.
Attori: Adriana Cipriani (Medea), Lucio Allocca (Giasone), Davide Maria Avecone (Creonte), Dely de Majo (la nutrice), Giulio Baffi, Giuseppe Barra, Mauro Carosi, Sergio de Sanctis, Leopoldo Mastelloni, Vincenzo Salomone (il Coro).
Prima prova aperta il 30 maggio 1969, presso il Centro Teatro Esse, via Martucci, 18 – Napoli.
1970
MEDEA
da L. Anneo Seneca
Adattamento di J. Vauthier. Elaborazione e regia di Gennaro Vitiello; spazio scenico Angelo de Falco e Giovanni Girosi; costumi Odette Nicoletti, aiuto alla realizzazione Marisa Bello; aiuto regia Antonio Capodanno; collaborazione ad alcuni suggerimenti musicali Roberto de Simone.
Attori: Adriana Cipriani (Medea), Giulio Baffi (coreuta – Giasone), Maria Capasso (coreuta – nutrice), Mauro Carosi (coreuta), Dely de Majo (coreuta), Leopoldo Mastelloni (coreuta – Creonte), Vincenzo Salomone (coreuta).
Prima rappresentazione il 2 gennaio 1970 presso il Centro Teatro Esse, via Martucci, 18 – Napoli.
Medea
o dell’estasi totale
La messinscena di Medea da parte del TS deve essere considerata come l’ideale continuo de I Negri, del discorso iniziato con il testo di Genet. Il testo a cui si fa riferimento è quello di Seneca, a cui è stata affiancata la lettura di un adattamento di Jean Vauthier e la successiva elaborazione di Vitiello.
Questo spettacolo risente molto del clima culturale di quell’anno: il 1968, ed infatti Medea è rivisitata e riorganizzata: Medea lotta per la libertà, “contro ogni forma di cultura repressiva…” (1), una Medea che è amante, sorella, figlia, madre terribile e snaturata, maga portatrice di messaggi occulti. Nel programma di sala il gruppo afferma di voler provocare il pubblico, di voler voler scuotere il torpore intellettuale in cui Napoli vive e formare una coscienza rivoluzionaria di massa attraverso la figura di Medea, che non è più solo una donna tradita dal marito, ma rappresenta il desiderio di giustizia contro lo sfruttamento morale ed economico di una civiltà malata.
Per fare questo Vitiello dà una nuova sequenza ritmica ad ogni scena, così da evidenziarne il linguaggio; l’influenza dichiarata è quella di Artaud da cui si parte per creare un modo loro, personale di interpretare la recitazione: nemmeno questo testo sfuggì alla rielaborazione-contaminazione che alla fine dà origine ad una Medea moderna. Sempre per l’influenza del ’68 di cui si parlava prima e per la voglia/utopia di avvicinare il pubblico al teatro, senza alcun tipo di barriera o di limitazione, insomma per rendere reale il famoso teatro per tutti, le prove dello spettacolo avvengono alla presenza del pubblico, cercando di coinvolgerlo direttamente nella fase evolutiva del testo. Ma l’esperimento interesserà un numero limitato di spettatori. L’evento sembra interessare molto di più la stampa, anche nazionale, che parla di questa opera aperta che si modifica e perfeziona sera dopo sera, prova dopo prova: “…E’ un invito nuovo quello che il Teatro Esse rivolge allo spettatore che non accetta più lo spettacolo come un oggetto confezionato e immutabile, ma desidera avvicinarsi ad un teatro in continua fase evolutiva…” (2).
“…Il pubblico può per la prima volta nella storia del teatro, accedere in sala, assistere e partecipare alla realizzazione del testo…così che il pubblico potrà, di sera in sera, verificare il crescere e il modificarsi del lavoro teatrale…” (3). Corrado Augias, citando il gruppo per la rappresentazione della Medea, afferma: “…Questo spettacolo ha avuto una singolare fase preparatoria, nel senso che il pubblico è stato ammesso alle prove in teatro per tutta la durata dell’allestimento. Ora non bisogna credere che l’intervento del pubblico, l’eventuale dibattito, gli immancabili ingenui servano a gran cosa per migliorare la messa in scena. Anzi, probabilmente da questo punto di vista non servono a niente. Però non bisogna nemmeno lasciarsi sfuggire l’elemento senza dubbio positivo, specie in una città culturalmente depressa come Napoli, di far assistere il pubblico al montaggio di uno spettacolo. Tra i molti strumenti insufficienti fin qui utilizzati per ravvivare il contatto con delle platee di riottosi, questo sembra quasi inedito e potenzialmente fruttuoso…” (4).
“…Attori e pubblico! E ogni sera, rompendo, quasi dissacrando una tradizione di inviolabilità delle quinte, in via Martucci 18, pubblico e attori elaborano, costruiscono, provano e riprovano insieme la nuova Medea. Il pubblico ha libero accesso alle prove, può intervenire, proporre, collaborare concretamente…(è) lo sventramento delle quinte, l’unità concreta tra pubblico e attori…” (5).
Ma la Medea, nell’intento del TS, è anche “…il teatro come rappresentazione di miti collettivi…” (6), che non a caso il gruppo tenta di riportare sui luoghi che li hanno visti nascere, come il Teatro Odeon di Pompei. Qui, però, sarà possibile fare solo delle prove: mancano i soldi e lo spettacolo non avrà luogo.
Ma quelle prove, fatte in piena estate, rimarranno un ricordo indelebile per chi c’era: “…Credo, ma non ne abbiamo mai parlato chiaramente, ci fosse una lettura di Maiuri (7) sotto, una lettura di Maiuri che giovane archeologo entra negli scavi di Ercolano e li immagina viventi. Questa grossa suggestione che Maiuri, appassionato archeologo creativo, dà degli scavi deve aver emozionato e stimolato la creatività di Vitiello, che chiese all’allora sovrintendente di poter usufruire dell’Odeon di Pompei e di creare un evento che ha dell’happening, del teatro di strada e del teatro codificato insieme. Calcolando esattamente il momento del tramonto, si iniziava lo spettacolo in modo da far coincidere la fine del dramma con il calar del sole. C’era solo una locandina all’esterno che annunciava le prove, ma l’ottanta, novanta per cento degli spettatori che entrava all’Odeon aveva l’impressione terribile che questa pietra parlasse ancora, fosse viva. Non era più ferma in maniera lavica, come le altre opere di Pompei. Viveva e viveva per un’accurata regia delle prove, che per me avevano un alto valore scenografico, avevano un significato. Con Vitiello c’era sempre una lettura sotto, una piccola utopia da dimostrare. Tutti noi ci sporcavamo con della creta colorata e ci dipingevamo il corpo e il viso a seconda del costume e del suo significato. Questa creta poi si solidificava e di screpolava, si incrinava e diventava trucco fittile: eravamo screpolati come il muro affianco, eravamo ruderi anche noi, ma viventi. Non so però quanta gente potesse cogliere questo senso. Per Vitiello la prova aveva un valore semantico altissimo, era una porta di servizio culturale che aveva un surplus di significati. Poteva svolgersi in maniera identica in un teatro, ma lì, al calar del sole, in quel posto, assumeva ancora un altro significato, del tutto nuovo…” (8).
Nel settembre del 1969 c’è una sola rappresentazione a Paestum, con un enorme successo di critica e di pubblico, ma non basta. Da qui l’ennesima crisi all’interno del gruppo sulle sue reali possibilità e capacità di diventare un punto di riferimento per la collettività. Alcuni degli attori vanno via; quelli che restano decidono di riproporre il testo in via Martucci.
Il testo è oramai assimilato, lo spettacolo può andare in scena il 2 gennaio del 1970: “…Si recita con una libertà nuova. L’attore sceglie, nel contesto di un’azione drammatica, per far miglior uso delle proprie espressività, la parola, il suono o il gesto. Siamo a quel livello che pensavamo irraggiungibile. Superiamo anche lo stacco tra una scena e l’altra per conquistare un tutt’uno di momenti drammatici che evolvono durante l’intera azione teatrale…” (9). Addirittura, per meglio curare i movimenti del Coro Vitiello chiamò un maestro di yoga.
Lo spettacolo, una volta messo in scena, non tradisce le aspettative, anche perché già durante le prove aperte si capiva che Vitiello intendeva realizzare un’opera coerente, “…una conquista di stile che esprimesse la maturità culturale e anche del gruppo, una definitiva presa di coscienza delle proprie forze e capacità espressive…” (10). Il testo era comunque difficile: antiteatrale per la sua forma declamatoria e per l’assoluta mancanza di spiragli interpretativi. Ma Vitiello riesce ad attuare una lettura altra del testo grazie ad Artaud e lo afferma lui stesso nell’introduzione alla Medea: “…Il suo (di Seneca) truculento disordine barocco serve pienamente a questo modo di concepire la recitazione, che fa tentativi nuovi insistendo sullo studio delle teorie di Artaud, circa il linguaggio fisico e il suo supporto con la parola. Non si vuole sopprimere la parola articolata, ma si desidera con Artaud, dare alle parole l’importanza che esse hanno nei sogni. Si è perciò voluto creare una forte atmosfera di emotività. Con i gesti, con i suoni, le voci, le luci, il movimento scenico e i costumi si è raggiunta una tensione che è ad un tempo intellettuale e ad un tempo popolare…” (11).
Non solo gesti e parole, quindi, ma anche luci, suoni, costumi, scenografie e movimento acquistano finalmente il loro reale valore sulle scene napoletane, cosa che fino a quel momento non era ancora successa (12). La scena di Giovanni Girosi è semplice, eppure fondamentale per la riuscita della rappresentazione: pedane di legno su cui si muovono gli attori, due torri di legno sul palco ed una tra il pubblico, su cui resterà, per tutta la durata dell’azione, Giasone, interpretato da Leopoldo Mastelloni (13). Le torri saranno unite da metri e metri di plastica trasparente.
Si crea uno spettacolo basato su un’atmosfera quasi ipnotica: si comunica attraverso un linguaggio fisico, fatto di suoni, gesti, balbettii, luci bianche puntate sugli spettatori. Una sfida stimolante quella di Vitiello: prendere un testo che ha nella parola e nel tono i suoi fondamenti e rileggerlo alla luce della ricerca di un linguaggio e di gesti-simbolo. Ma c’era il rischio di dare origine ad una interpretazione di testa, formale e poco sentita. Ma Vitiello evita il problema attualizzando il conflitto tra Medea e il Coro, trasformandolo nel conflitto tra cultura decadente e cultura primitiva, ossia tra Corinto e la barbara Medea, ossia tra chi aspira alla libertà e la società che annulla l’individuo integrandolo: “…Man mano che l’azione teatrale si evolve i Corinzi, sempre più attratti dalla comunicativa rivoluzionaria che Medea infonde, si uniscono a lei e insieme distruggono la città, assassinando il tiranno Creonte e sacrificando i due figli del debole Giasone. Si vuole così simboleggiare l’apertura a un nuovo tipo di cultura…” (14).
Medea non è più la donna che si vendica del tradimento del marito, ma diventa la personificazione del desiderio popolare di lottare contro ogni forma di ingiustizia e di sfruttamento, e il vello d’oro diventa il simbolo della realtà che alla fine degli anni sessanta è alla disperata ricerca di un nuovo ordine.
“…Lo spettacolo serrato, unitario e incalzante…è ricco di gesti imprevedibili e anche di preziosità espressive. Dall’ingresso in scena dei personaggi, che strisciano sul pavimento (un richiamo al Living), via via agli accenni di danza, al dialogo ora scandito, ora sibilato tra Medea, il Coro e Creonte…Lo spettacolo non ha pause e fila veloce e provocatorio, coinvolgendo nell’azione gli stessi spettatori, in una specie di rituale laico assai suggestivo…” (15). L’attrice Marisa Bello nel ricordare la Medea parla di una regia agressiva: “…le indicazioni registiche della Medea erano di essere aggressivi e provocatori nei confronti del pubblico, nel senso di urlargli in faccia certe frasi, di tirargli addosso parti della scenografia, era un atteggiamento di comunicazione aggressiva nei confronti del pubblico…” (16).
Lo spettacolo sarà rappresentato anche in Germania, a Monaco, nel 1970 nell’ambito della “Settima Settimana del WERKRAUMTHEATER”, sconvolgendo non poco pubblico e critica: “…E Dio, l’elaborazione della Medea del regista Gennaro Vitiello aveva a che fare con Seneca quanto l’elaborazione de “La bottega del caffè” del capo dell’antiteatro Fassbinder con Goldoni. Ciò non vuol dire che questi napoletani abbiano minimamente a che fare con l’antiteatro. Al contrario, essi recitano un vesuviano teatro teatrale da far vibrare pareti e spettatori…La Medea elaborata è più una Rosa Luxemburg invasata rivoluzionaria che un’eroina mitologica. Le lotte titaniche sono trascinate giù sul piano sociologico…Per ritornare al Coro: esso consiste di forme viventi che sono una mescolanza di lemuri, erinni e apocalittici anfibi. Si comportano con estrema eccitazione, bisbigliano, gridano, strisciano, pestano i piedi e si dimenano su torri di legno…In fine…si infiltra tra gli spettatori, gli attori premono sulla pelle del pubblico e lo accecano con i riflettori…” (17).
“…Il caso della più interessante criminale del mondo antico si è allontanato dalla psicologia dell’omicidio. In luogo di ciò Medea ha assunto poi importanza come prima esponente dei problemi della donna…Lo spettacolo si sviluppa stilisticamente mediante la focosa, brulicante ciurma del Coro che, balbettando come bambini di quattro anni, accenna alla bassezza dell’esistente cultura…completamente arealistico, massimamente gestuale-simbolico si svolge tutto l’atto selvaggio, acceso nel tono e nel linguaggio. L’istigatrice Medea tiene in pugno il Coro che con un pestare ritmico giunge ad un volume penetrante…Con costumi vari, talvolta variopinti, talvolta semplici…il regista Vitiello dà rilievo a questa rappresentazione popolare. La piena sicurezza della concezione permette perfino qui di impiantare uno spettacolo assolutamente semplice, che si stabilisce a frustate fra il Coro e l’infelice eroina. Una donna che sa adempiere con vivacità al suo ruolo fisico e con una voce profonda e rotta che viene dall’intimo. La parola di Medea giunge fin sotto la pelle…” (18).
“…Come questa giovane compagnia si impegnava con furibonda ossessione a dare dell’argomento mitologico di Medea, furiosa maga dell’antichità e infanticida, un simbolico dramma delle libertà, era già enormemente spettacolare…Con corpi trasportasti in estasi ci si muoveva agilmente sulle impalcature e intorno agli spettatori e ci si adoperava con parole rituali e la magia del corpo ad ipnotizzare gli astanti stupefatti…Gli spettatori venivano aggrediti contemporaneamente con le parole e con il riflettore…” (19).
Eppure per Vincenzo Salomone portare la Medea in Germania fu una delle maggiori idiozie del gruppo: colpa dei teli di plastica della scena, “…sembrava l’acquario di Medea… gli spettatori, dall’altra parte del palco, che vedevano lo spettacolo da una certa distanza, avevano perso il vero significato della Medea, dove in precedenza lo spettatore era stato dentro l’azione, al centro c’era la pedana dove agiva Medea, ai lati altre pedane dove agiva Creonte, mentre il Coro si muoveva intorno e tra il pubblico. Nel momento in cui tutto questo non succede e l’azione si svolge tutta là sopra, si perde il reale significato. Purtroppo lo spettacolo era nato per stare in via Martucci e basta…” (20).
In ogni caso, fu sempre, a Napoli e a Monaco, sottolineata la bravura degli attori e del regista: “…Gli elleni concedevano agli attori come espresso dono delle Muse l’impazzire divino. E sebbene il nostro gruppo alla fine di Medea proclamasse che non ci sono più dei, si sentiva che era divinamente impazzito…” (21).
Note:
- G. Vitiello – programma di sala Medea
- Vice – “Spettacolo-esperimento. La prova per la messinscena di Medea”, Roma del 14/6/1969
- anon. – “La prova per Medea al Teatro Esse”, Il Mattino del 12/6/1969
- C. Augias – “La carovana di Brecht”, l’Espresso del 18/1/1970
- R. Castaldo – “Venga alle prove, ci può dare un consiglio”, Ciao 2001 s.d. – Arch. Vit.
- G. Vitiello – ibidem
- Amedeo Maiuri (1886-1963) – archeologo e scrittore, sovrintendente agli scavi di Pompei ed Ercolano fino al 1963.
- V. Salomone – intervista concessa il 4/11/91
- G. Vitiello – ibidem
- Pari – “Medea al Centro Teatro Esse”, l’Unità del 16/1/1970
- G. Vitiello – ibidem
- “…Gli ultimi due decenni del teatro italiano sono stati caratterizzati da una rivolta formale che…ha posto come bersaglio la parola…per riportare l’accento sul gesto e sull’immagine…per fondare un teatro nuovo che sceglieva l’afasia più che la parola…indagando sull’intricato rapporto tra gesto-suono e immagine, sulla Scena intesa come Spazio, mentre lo Spettacolo diventava Evento e gli oggetti e le luci erano “corpi” al pari degli attori.” – L. Libero, Dopo Eduardo, cit:, pp. 9/10
- A proposito del ruolo di Mastelloni, bisogna segnalare il ricordo di Antonio Capodanno, aiuto regista per questo spettacolo: “…Leopoldo fu fantastico in questa parte. Non faceva molto, stava lì sopra tutto il tempo, eppure si sentiva la sua presenza, la tensione che sprigionava da ogni parte del suo corpo, con quello sguardo da pazzo che seguiva ogni minima azione sulla scena. Secondo me, con la sua sostituzione, in Germania, lo spettacolo perse parte della sua bellezza.” – intervista concessa nel luglio del 1994.
- G. Vitiello – ibidem
- Pari – ibidem
- M. Bello – intervista concessa nel marzo del 1992
- Max Christian Feller – “Fuoco vesuviano da Napoli”, MUENCHNER MERKUR del 15/6/1970; traduzione dal tedesco Uta Rieger Vitiello – Arch. Vit.
- T. Petz – “Medea da Napoli”, ABENZEITUG del 15/6/1970; traduzione dal tedesco Uta Rieger Vitiello – Arch. Vit.
- Herbert Gregory – “Furiosa maga dell’antichità in estasi totale”, T.Z. del 15/6/1970; traduzione dal tedesco Uta Rieger Vitiello – Arch. Vit.
- V. Salomone – ibidem
- M.C. Feller – ibidem
Recensioni:
PROVE PER LA MESSINSCENA DI MEDEA
- Anon. – “La prova per Medea al Teatro Esse”, Il Mattino 12/6/1969
- vice – “Spettacolo-esperimento. La prova per la messinscena di Medea“, Roma 14/6/1969
- R. Castaldo – “Venga alle prove, ci può dare un consiglio”, Ciao 2001, s.d. – Arch. Vit.
MEDEA
- F.d.C – “Medea di Seneca al Centro Teatro Esse”, Il Mattino 7/1/1970
- pari – “Medea al Centro Teatro Esse”, l’Unità 16/1/1970
- C. Augias – “La carovana di Brecht”, L’Espresso 18/1/1970
- M.C. Feller – “Fuoco vesuviano da Napoli”, Muenchner Merkur 15/6/1970
- T. Petz – “Medea da Napoli”, Abenzeitung 15/6/1970
- H. Gregory – “Furiosa maga dell’antichità in estasi totale”, TZ 15/6/1970
Testo tratto dalla tesi di laurea in Istituzioni di regia, “Gennaro Vitiello, regista” di Leonilda Cesarano, per il Corso di Laurea in Dams – Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, relatore prof. Arnaldo Picchi.